(Racconti dal Monferrato. terra di cavalli dal grande cuore gravel)
“Tires su da quel tavulin lì, Barbera! Al telefono c’era il Franco, lei è appena atterrata alla Malpensa. Il tempo di sistemarla e tra un’oretta,. massimo due, sono qui. Ma, ci pensi……, te ghe penset Barbera?….L’è turnada la Contessa!” Adele Chiriotti, milanese di nascita, proprietaria ed anima del Bar Tris nel cuore del Monferrato vero, due vetrine vecchio stile sul periferico viale Neruda che dall’altro lato ospita l’ingresso dell’allevamento di cavalli purosangue Semper Fidelis, era corsa dalla cucina alla stanza del bar dopo aver riattaccato con insolita energia la cornetta al vecchio telefono nero a muro. Finchè funzionava, non ne voleva sapere di quelle nuove diavolerie bianche dai tasti dove “se capìs nagòt”. Qualche giorno prima, anzi, aveva litigato con il tecnico-cliente-amico della Stipel che voleva a tutti i costi cambiarglielo. Adele, donnino sulla settantina dal carattere forte e spigoloso come i lineamenti del volto incastonato da un caschetto di capelli ormai grigio, pareva infervorata. parlando a voce alta e concitata a quell’omettino mezzo addormentato, stravaccato sul tavolo all’angolo più lontano del locale, il suo solito, con un bicchiere di rosso dal quale centellinava il fondo ed il calice da mezzo litro che un’oretta prima era pieno. Avrebbe potuto essere messo ubriaco, a quell’ora del pomeriggio quasi sempre lo era. Ma mai al punto da perdere la lucidità felina.
L’ECCEZIONE “Quando lei ti vedrà in queste condizioni – e l’Adele calcò ancora di più il timbro della voce su quel “lei”, come parlasse di una persona davvero importante – non ti riconoscerà. Oppure penserà che sei diventato una bestia, e sai che lei le odia”. Con una eccezione: Roccia, quel bestione, un pastore bergamasco dal mantello nero con boccoli alla rasta, un pelaccio folto così – spesso puzzolente a seconda di dove andava a ficcarsi- che lasciava intravvedevano a fatica gli occhi più neri ancora del pelo e la rossa lingua penzoloni. Lei e Roccia erano cresciuti insieme, si cercavano come legati da una misteriosa simbiosi. Quando lei non era in trasferta, la notte dormivano fianco a fianco. O meglio, lui dormiva disteso sulla soglia del box dell’amica, un occhio sempre aperto. come volesse, dovesse proteggerla da tutto e tutti. Come se lei, grande cinque volte tanto.- e con quel caratterino da maschiaccio – ne avesse bisogno.
INSEPARABILI La Contessa e Roccia erano cresciuti insieme, erano diventati inseparabili. Da 3 anni ormai lei era partita, eppure ogni giorno Roccia passava con la tipica andatura al trotto davanti all’appartamento della sua amica, lasciato rigorosamente vuoto e tenuto sempre lindo. Pronto. Tutte le volte si fermava un attimo lì davanti , aspettando – chissà – di vederla spuntare come in mille altre occasioni. Ormai era un rituale quotidiano. “La ghè no, Roccia, non c’è”, lo apostrofava spesso Pino. lo stalliere zoppo responsabile di quell’ala delle scuderie. Il calcione di un vecchio purosangue grigio, un broccone irascibile e incattivito dal doversi spaccare i tendini nelle corse ad ostacoli, gli aveva spappolato un ginocchio mettendo fine sul nascere alla promettente carriera di fantino. Il vecchio purosangue grigio aveva poco dopo finito la sua corsa sul bancone di un macelleria equina, il Pino si era inventato quel nuovo lavoro grazie anche alla generosità dei Conti Branca, già allora proprietari dell’allevamento. “Chissà vecchio mio – aggiungeva a volte il Pino parlando con Roccia -, magari prima che io e te tiriamo le cuoia ci capiterà di poterla riabbracciare,…. la Contessa, ci pensi?” E nel dire queste parole, lo sguardo di Pino sfuggiva sempre verso la foto ingiallita di lei, la Contessa, attaccata al cancelletto. E tutte le volte si commuoveva, fino alla lacrime Se quel modo di muovere le orecchie di un pastore bergamasco nascondeva il pianto, c’era da scommettere che piangeva anche Roccia. Partendo a sorpresa per l’America, la Contessa aveva lasciato un vuoto crudele, amaro, doloroso. E il trascorrere del tempo non aveva attenuato la nostalgia di chi le aveva vissuto accanto, di chi aveva diviso con lei gioie e delusioni
L’OMETTINO Scosso per il bavero dall’Adele, Bartolomeo Berazzani, ora conosciuto come Bar-Bera, 148 centimetri di bassezza per un peso forma di 42 chili, fantino popolare fino a 4 anni prima negli ippodromi con il nomignolo di Meo, si alzò a fatica e barcollando si diresse verso l’uscita del bar. “Che cosa vuoi che me ne freghi se adesso ritorna – bofonchiò l’omettino dai capelli neri corti e radi, gli occhietti spiritati a fessura, il naso sottile ma lungo e la bocca appena accennata, come un tratto di matita, trasandato dalla camicia sporca e dalla barba di tre giorni – Quella stronza e le sue bizze mi hanno rovinato… proprio a un poveretto come me”. “La vita te la sei rovinata con le tue manine – lo contraddisse subito l’Adele – . Le tue manine e quella principessa che ti voleva così bene da mangiarti via tutti i soldi. Vai via che me vegn el nervus. E stai attento alle macchine che l’altro giorno hanno tirato sotto l’Augusto. Ti aspetto alle 8, stasera minestrone”.
FIENO CALDO 4-14-20-24: gli orari che da 4 anni scandivano la vita di “Bar-Bera” Bartolomeo Berazzani. Alle 4 in piedi per qualche lavoretto in scuderia, alle 14 al bar del’Adele per il mezzo di Barbera, alle 20 la cena misericordiosamente offerta dall’Adele, a mezzanotte a letto sul pagliericcio di una scuderia, che tanto il fieno tiene caldo anche d’inverno, basta buttarcisi sotto. Di buono, a volerlo proprio cercare, c’era che la dieta spartana (oltre che gratuita) gli aveva permesso di mantenere quasi il peso forma . “Se ti allenassi e bevessi un po’ meno potresti tornare a fare qualche monta “, gli aveva stranamente detto quella mattima il Pino. Ma Berazzani, tormentato spesso dalla tentazione di farla finita, neppure ci pensava. I tempi del “Ma vieni Maeo!” urlato dalle tribune erano lontanissimi. E lui quella sera era talmente sbronzo che tornando nella suite con pagliericcio in scuderia non si accorse del nobile profilo sauro ,con la solita mascherina bianca sul muso, e del vecchio Roccia che lo osservavano straniti da un box non più vuoto dopo anni. Che cosa cosa stava per succedere all’allevamento Semper Fidelis e – chissà – nella vita di Bartolomeo Berazzani, una volta Meo ed oggi BarBera? E chi sarà mai questa Contessa?
IMPELLENTE Virginia Verasis di Castiglione, così avrebbe dovuto chiamarsi quella piccola saura sbarazzina dalla stella bianca sul muso nata la settimana prima, senonchè l’artiere mandato all’ufficio anagrafe per registrarne la nascita, smarrì il foglietto con scritto quel nome così difficile da ricordare. Nel panico e pressato dal funzionario alle prese con la coda e con un impellente bisogno, l’artiere si ricordò che il Conte Branca chiamava affettuosamente la cavallina Contessa: tale era Virginia Verasis di Castiglione, donna bellissima e discussa protagonista – nel bene e nel male – del Risorgimento d’Italia, tale venne registrata la cavallina all’albo dei purosangue.
PEZZO GROSSO La Contessa, ex Virginia Verasis di Castiglione, era nata all’allevamento Semper Fidelis da mamma Veragna e da papà Nefronte della Rocca. Una genealogia nulla più che discreta, tanto che alle aste il conte Branca, l’allevatore e padrone del Semper Fidelis, se l’era riportata a casa ritenendo non soddisfacente l’offerta massima di 13 milioni ricevuta dal battitore d’asta. In realtà non aveva accettato la cessione perchè l’offerente era Mauro Rigaggi, pezzo grosso della borsa, con il quale Branca, omettino all’apparenza fragile ma dal carattere forte quanto il portafoglio ereditato dalla madre, aveva più volte discusso per via di cavalli e di donne. Discussioni mai appianate, e il Branca diventava paonazzo di rabbia quando vedeva la sagoma erculea di Rigaggi, riconoscibile già da lontano per l’inseparabile cappello texano. Mai Branca gli avrebbe venduto un suo cavallo; in realtà lo sapeva benissimo anche Rigaggi al quale però quei giochetti divertivano tanto. Di quella piccola saura nulla gli interessava, l’offerta dei 13 milioni era solo l’ennesimo affronto a Branca che a chiunque altro avrebbe venduto la puledrina anche per 7-8 milioni. Storie di uomini e di cavalli, dove gli odi si mischiano agli amori.
IL VIZIO Vai a sapere con i cavalli, ma gli “amanti” che avevano messo al mondo Virginia Verasis di Castiglione, ormai Contessa, parevano garantire alla cavalla una onesta carriera da routinier, con una predisposizione particolare al fondo. Mamma Veragna, prometteva molto bene ma non aveva mai corso per un grave infortunio in allenamento: aveva il vizio di sfiorare le transenne di destra della pista, e quella volta le sfiorò così tanto da finire gambe all’aria e quasi accoppare il malcapitato fantino, indovinate un po’ chi, il talentuoso Bartolomeo Berazzani, che ci rimise 7 costole e quando c’era da spingere il cavallo con forza nel rush finale non fu mai più quello di prima… Poco da segnalare anche sul padre Nefronte, un habituè del sottoclou di San Siro che si era guadagnato onestamente vitto ed alloggio con tanti piazzamenti e tre vittorie nel borsino.
QUEL MOVIMENTO Passavano i mesi e il Conte Branca aveva cercato ogni occasione per cedere la Contessa, benintesi a chiunque non fosse il Rigaggi. Quella cavallina gentile e bizzosa al termine del primo anno gli sembrava troppo esile per poter far qualcosa di buono in pista. Non gli interessava…. almeno fino a quando, avvicinandosi il secondo anno di età ed il debutto alle corse, non le vide fare in canter una strano movimento con la testa notoriamente tipico di Fernandez, crack americano che tra una trasferta e l’altra attraverso il mondo aveva soggiornato per qualche settimana all’allevamento Semper Fidelis. “Vuoi vedere che con la Veragna….”, rimurginò tra sè Branca. E siccome i tempi di gestazione e nascita tornavano, nel dubbio il Conte – per la verità sempre scettico – decise di non vendere più la Contessa. Fece bene.
CAPPELLO TEXANO A due anni la saura era una splendida cavalla: seconda all’esordio dopo una partenza disastrosa, inanellò poi, sempre con la monta di Meo, tre vittorie di fila che la accreditarono tra le femmine più interessanti dell’annata. Ora si doveva di cercare il confronto con le più forti in campo internazionale, alla faccia del Rigaggi che quando Contessa dominò quasi scherzando le Oaks, la corsa italiana più importante per le femmine, era stato notato sbattere a terra dalla rabbia il cappello texano. Contessa diventava ogni giorno più bella, più forte maestosa, orgogliosa nel portamento. Ma anche birichina, soprattutto con Meo. Come quella volta che lo fece correre dal tondino alla gabbie di partenza perchè – chissà per quale motivo – si era intestardita ad impedire che le salisse in groppa. Capriccio risolto davanti alle gabbie dove Meo giunse stremato, ma ancora con le forze sufficienti per riaccompagnarla all’ennesima vittoria per distacco. Poi all’improvviso le Sirene dell’America, i prestigioso Blue Grass Farm in California. Un Paradiso che però per lei, lontana dal suo Monferrato, dal suo mondo, divenne un inferno. Al punto che i nuovi padroni americani, disperati per le prestazioni ridicole e la visibile, inspiegabile, sofferenza, decisero di rimandarla per un po’ in Monferrato, all’allevamento natio
VIRGINIA E CAVOUR “Io non credo all’amore, è una malattia che passa com’è venuta…. prendetemi oggi non contate di avermi domani”: così scriveva Virginia Verasis di Castiglione, la donna che conquistò anche Napoleone III e che contribuì a fare l’Italia (il Conte Branca la metteva sullo stesso piano di Cavour). Parole. quelle scritte dalla bellissima Virginia, che incredibilmente valevano anche per la Contessa, che ne fece passare tante, ma tante, agli artieri ed anche a Meo, che in quel momento, ore 4 o’clock, alle prime luci dell’alba, si alzava dal pagliericcio. Era ancora talmente intontito dal vino della sera prima che mentre si lavava la faccia alla fontanella della scuderia manco più pensava alla Contessa ed al suo clamoroso ritorno. Glielo ricordò lo strano abbaiare di Roccia. Abbaiare alle 4 del mattino? Meo d’istinto pensò di aver dormito troppo e si preparò all’arrabbiatura degli altri artieri che sicuramente avevano dovuto fare anche il suo lavoro. Poi si girò, vide Roccia che lo guardava appoggiato sulla zampe posteriori, gli occhi di Contessa che lo scrutavano dal box e ricordò tutto. Anche di come si era ridotto. Successe tutto in un attimo. Si lasciò cadere a terra strisciando la schiena lungo il muro, guardò Contessa e Roccia per qualche interminabile secondo, poi venne travolto dall’emozione. Nessuno, prima, lo aveva visto piangere.
DOLCE E TREMENDA Solo tre mesi erano trascorsi da quell’alba dolce e tremenda. Eppure all’allevamento Semper Fidelis – nel cuore del #Monferrato casalese – si respirava già aria nuova, frizzantina. Come folgorato dagli sguardi delusi e tristi della Contessa e di Roccia, Bartolomeo Berazzani era diventato un altro uomo, o quantomeno stava lottando per ritornare quello di prima. Quello che ne restava. Dopo aver dato un taglio al vino (raramente più di un bicchierino di #Barbera a cena), aveva preso in affitto una villetta nella vicina #Mirabello. La casetta mostrava dentro e fuori tutti i segni tipici degli anni di abbandono, ma per Meo andava benissimo. Aveva pure fatto qualche lavoretto: una bella mano di bianco alle pareti, il nuovo boyler per l’acqua calda ed il riscaldamento.
CIECAMENTE Con quali soldi? Con quelli di Michele Novaro, 63 anni, uomo di classe e di cultura che per seguire le orme di papà Graziano si era dedicato fin da ragazzino all’allenamento dei purosangue. Guardandolo al tondino mentre dava le ultime istruzioni al fantino di turno o in scuderia mentre – elegante come sempre – verificava che le carote fossero tagliate giuste e nella misura esatta, lo avresti potuto scambiare per un aristocratico, un notaio, un nobile, un industriale di quelli dalle braghe bianchisssime capitato lì per sbaglio. Aramis, Tarragona, Prince d’Altar, Blith Valley, Theodore, Snake Valley e Pytagoras le sue creazioni migliori, purosangue capaci di vincere in Italia e all’estero. Memorabile la rimonta di Snake Valley a Longchamp, con i francesi che ancora gli bruciano. Di contorno ai campioni, una pletora di buoni cavalli, ben allenati, che con piazzamenti e qualche vittoria si guadagnavano vitto ed alloggio e soprattutto contribuivano a tenere in piedi fior di scuderie. Era però Veragna, la mamma di Contessa, la cavalla nella quale Michele Novaro aveva riposto i suoi sogni più segreti. Per lei – e per se stesso – prevedeva grandi vetrine. Ci credeva ciecamente. Vederla rovinarsi contro lo steccato in allenamento era stata una coltellata dritta al cuore.
SENZA PERDONO Mai aveva dimenticato. Mai aveva perdonato Meo per non aver saputo correggere quello scarto improvviso, vizietto ben conosciuto, che aveva stroncato sul nascere la carriera alla “sua” cavalla. Da quella maledetta domenica di corse a San Siro si era via via affievolita anche la passione di Notaro per il lavoro sui cavalli. Un amore rinato con la nascita di Contessa, ma definitivamente chiuso con la cessione agli americani della prima figlia della “sua” cavalla. Ora Novaro si godeva la vita, coltivando la passione per le barche a vela e la mania dei trenini elettrici. Il suo rapporto con i cavalli si limitava a rare comparsate a San Siro per corse importanti. “Sei pronto a tornare, eh?”, lo provocava a volte il vecchio Mario Canali, decano tra i giornalisti di cavalli anche se al trotter non lo si vedeva quasi mai, scorgendo quella fiammella ancora viva negli occhi di Novaro quando i cavalli imboccavano la dirittura d’arrivo. Ma a tornare ad allenare, Michele Novaro neppure ci pensava. Impossibile per lui accettare quello che era successo a Veragna, faticava persino a guardare negli occhi senza rancore il Meo, che – uomo ignorante per cultura ma dall’intelligenza fina – soffriva per quell’odio che percepiva e che, in cuor suo, pensava di non meritare. I rapporti tra Romano e Meo, attori per vent’anni di un connubio strettissimo fatto di stima, rispetto, capacità e confronto, si erano via via raffreddati, chiusi del tutto quando Meo perse la testa per una nobildonna istriana (così almeno lei sosteneva). “Quella gli mangia fuori tutti i soldi e poi gli dà un calcio nel sedere”, sussurrava Romano agli amici più intimi.
ALCOLIZZATO Detto, fatto. “Mi dicono che Meo viva sulla strada, un barbone mezzo alcolizzato e senza più un soldo – disse Novaro al Conte Branca quel giorno, mentre gli consigliava l’acquisto giusto alle aste di puledri – Non ha un posto per lui in allevamento? Spazzare nelle stalle, andrebbe già bene, lo togliamo dalla strada. Se combina qualcosa ne rispondo io. L’importante è che lui non sappia del mio interessamento”. Così si era aperto il capitolo della difficile e per molti improbabile rinascita di Bartolomeo Berazzani, detto Meo ( solo l’Adele in Osteria poteva chiamarlo ancora BarBera), la cui pagina più recente narrava di un fresco secondo posto conquistato con i denti e con tutto quello che aveva in corpo in una corsetta di basso livello. Malgrado la vita nuova, il problema rimaneva quello vecchio: riusciva a spingere forte solo per 100 metri, poi la corrente si spegneva, faticava a respirare, non riusciva più ad esaltare il galoppo del cavallo. L’incidente con Veragna aveva segnato per sempre il suo fisico eppure, rientrando al tondino elegantissimo nel portamento e nella tutina bianca e rosa, Bartolomeo Berazzani si sentiva di nuovo un fantino, oltre che un piccolo uomo scampato dall’inferno. “Bravo Meo”. gli aveva gridato uno cavallaro dalla tribuna. Ma Contessa? Che cosa stava facendo la Contessa in Monferrato, chiusa nella sua linda scuderia o libera al pascolo con l’inseparabile Roccia a fianco? Che cosa stava preparando per lei il destino?
IRRICONOSCIBILE Al ritorno dall’America, Contessa era un’altra cavalla, irriconoscibile per chi l’aveva vista nascere. Sembrava persino denutrita (ipotesi ovviamente da escludere), ed anche gli occhi avevano un qualche cosa di spento. Fosse stato un essere umano, qualsiasi medico avrebbe avuto buon gioco nel diagnosticare un profondo stato depressivo. Che cosa le era successo in America? E’ possibile uscire in quello stato così malridotto dalla permanenza in un allevamento tra i migliori della California, nell’America terra promessa dell’ippica? Perchè un’atleta di vertice come Tessa era diventata all’improvviso una brocchetta qualsiasi, persino svogliata, che in America aveva fatto impazzire allenatori e fantini? Può un cavallo entrare in depressione se tolto dal suo habitat, dalla terra natìa, dagli amici?
NASO SCHIACCIATO Queste domande frullavano da giorni nel cervello di Bartolomeo Berazzani. Dal rientro in allevamento della cavalla, i loro rapporti si erano limitati a qualche carezza rubata di nascosto. Il caporazza non si fidava ancora di quell’omettino mezzo alcolizzato, facesse le pulizie alle stalle che già era un regalo. Così Tessa veniva montata al tondino ogni giorno da Luigi Cerlanti, il giovane top jockey della scuderia, un biondino dal naso schiacciato talentuoso e molto pieno di sè che spesso veniva ingaggiato per montare anche all’estero, Inghilterra, Francia e persino Giappone. In quei giorni caldi ed umidi, Cerlanti – che con Meo aveva rapporti freddi – scuoteva la testa ogni volta che smontava dalla sella di Tessa. Pareva perfino infastidito. “Non sento più energia nella cavalla, e neppure voglia di correre, è vuota. La manderei in razza”, disse una mattina al Conte Branca, venuto ad assistere all’ennesimo canter svogliato della – di nuovo – sua cavalla. “Lasciamole un po’ di tempo – propose invece l’ex allenatore Novaro al Conte che gli chiedeva consigli – Fretta non ce n’è, aspetterei ancora qualche mese per vedere come Tessa reagisce all’aria di casa”.
L’OCCASIONE Non ci fu bisogno di attendere così tanto per capirlo, il destino era pronto a scendere in campo: un banale incidente stradale all’incrocio poco lontano dall’allevamento Semper Fidelis provocò una brutta frattura alla clavicola di Luigi Cerlanti. Fuori gioco almeno due mesi. Chi avrebbe montato Tessa per tutto quel tempo? Era l’occasione per mandarla subito in razza? Di questo stavano parlottando il Conte Branca ed il capo allevamento, quando dall’angolo spuntò Berazzani, fresco della prima vittoria della sua seconda vita nel convegno domenicale di Torino. La corsa centrale dominata con Vox Populi, nulla di eccezionale ma quanto bastò alla Gazzetta per titolare, in un trafiletto in seconda pagina, “Berazzani, champagne per un ex alcolizzato”. “Meo te la senti di riprendere Tessa? – scappò detto d’istinto al Conte Branca – .Nessuno la conosce meglio di te. Montala per un po’, facci sapere che cosa pensi si debba fare sul suo futuro”. Meo abbassò la testa per qualche secondo, sembrava indeciso, ma quando la rialzò i suoi occhi sottili e taglienti sprizzavano una luce che non lasciava dubbi sulla risposta. Dal giorno dopo avrebbe ricominciato a lavorare con Tessa. Ma dal suo corpicino esile uscì una richiesta perentoria, erculea, inattesa: “Solo se me la affidate per per un mese; la porterò in giro per la campagna qui attorno, con noi dovranno venire ogni giorno anche Wanadio, mantato sempre da Francesco, e Roccia. Voglio carta bianca, niente domande: fra un mese vi dirò che ne penso”. Sbigottito da tanta energia, il Conte Branca annui sorridendo. “Domattina voglio trovare Tessa pronta per le 7 – disse Meo al caporazza – . La porto sulle sue strade, le strade della Monsterrato“
DUE BISCOTTI SECCHI Una tazzina di tè con 2 biscotti secchi. La colazione per quella mattina così speciale. Si era persino fatto la barba, col Prep, come d’abitudine prima dei grandi convegni domenicali all’ippodromo. La lama del rasoio era molto affilata e la Rocca d’allume aveva tamponato il sangue di un taglietto sotto l’orecchio destro. Le campane di Giardinetto suonavano il secondo dei 7 rintocchi, quando Meo Berazzani entrava nell’allevamento Semper Fidelis dalla porticina secondaria. Un’abitudine che aveva preso quando, rientrando la sera nella stalla dove dormiva, aveva vergogna di farsi vedere dai custodi col passo incerto per i fumi dell’alcool. Abitudine che aveva deciso di mantenere all’inizio di questa seconda vita che chissà dove l’avrebbe condotto, forse fuori dall’inferno, forse solo un’illusione passeggera. “Ricordati che contro l’alcool dovrai combattere tutti i giorni”: aveva ben chiare in testa, pesanti come macigni, le parole dell’Adele, che il vino lo vendeva all’osteria là fuori ma che di sicuro gli voleva bene.
L’ORECCHIO SINISTRO A vederlo così lindo e fresco, persino elegante negli stivali lucidi, i pantaloni bianchi da cavallerizzo, il gilet blu sopra una camicia bianca, i capelli lucidi di brillantina, e il profumo dell’Aqua Velva, mai avresti pensato al rudere che quell’uomo era qualche mese prima. Borbottando qualcosa tra sé e sé, forse per le parole dell’Adele che gli pesavano sempre sul gozzo, Meo svoltò l’angolo del corridoio B, quello che conduce al tondino. Tessa era già lì, sembrava lo aspettasse. Da quanto tempo non la montava anche solo in passeggiata? Da quanto non la lanciava al galoppo? Da quando non sentiva quell’inconfondibile versetto sommesso, una specie di basso nitrito soffocato in gola, con la quale lo accoglieva prima di ogni corsa? Che cosa era rimasto di quella cavalla dopo la maledetta parentesi americana? Meo l’accarezzò dietro l’orecchio sinistro, come lei una volta gradiva, senza però ricevere nessuna risposta. Meo decise allora di comportarsi come con qualsiasi altro cavallo, e quando ebbe finito di sellarla con un salto le fu sopra. “Aurelio, dammi quella banana e tre carote”, chiese all’artiere: quella mattina sarebbero state il pranzo suo e lo spuntino di Tessa, che di carote era golosissima. “Wanadio è pronto?” “Sì è fuori che vi aspetta, come hai chiesto lo monta Francesco che l’ha già fatto sfogare un po’ – rispose l’Aurelio, un omone calvo con le manone callose che sembravano badili ma capace di tenerezze infinite quando maneggiava i cavalli – Sai che ti dico? Mi sembrava che Wanadio sentisse tutta la responsabilità del suo nuovo ruolo, valli a capire sti cavalli!”.
LA SFIDA I due si salutarono e Meo – con la punta gialla della banana che spuntava dal taschino posteriore del gilet blu, si mise al passo con Tessa per raggiungere Wanadio e Piero, i compagni di passeggiata. Così aveva deciso Meo, dopo la carta bianche avuta sulle gestione di Tessa. Wanadio pareva incuriosito per quello che stava accadeva, e si esibì in tre o quattro esuberanti “sì sì” con il testone grigio. Strana la sua storia. Il Conte Branca lo aveva acquistato 6 anni prima a Longchamp, dove averlo visto finire secondo in rimonta in un corsa per puledri di un certo valore. Il Conte si era proprio invaghito di quel bestione enorme che prometteva così bene. Ma il destino ci aveva messo lo zampino. E per quelle misteriose vicende che rendono così affascinante e imperscrutabile il mondo dei purosangue, Wanadio prese un brutto vizio: alla mattina era un’iradiddio, peccato che le corse fossero al pomeriggio quando di galoppare proprio non ne voleva sapere. Memore dell’invaghimento e confidando sotto sotto in misteriosi ravvedimenti, il Conte aveva deciso di tenere comunque Wanadio tra i propri effettivi. Meo lo aveva scelto apposta, voleva che prima o poi misurasse Tessa. Quando sarebbe accaduto, Meo avrebbe capito se la cavalla che lui conosceva c’era ancora o se era meglio mandarla in razza.
IL PROGETTO Nei progetti di Meo quell’esame sarebbe dovuto venire dopo un periodo di ambientamento fatto di lunghe passeggiate e al massimo qualche leggero canter. “Vai avanti tu, prendiamo la strada bianca verso Lu” – disse Meo compiacendosi per l’assonanza – Attenzione alle biciclette perchè su quella strada a settembre passa la #Monsterrato, molti vengono ad allenarsi prima”. Il dado era tratto, la sfida cominciava, il gioco era molto più alto di un eventuale ritorno in pista. Quella mattina Meo si era comportato come con qualsiasi altro cavallo, gli stessi metodi, gli stessi tempi, le stesse operazioni. Ma non gli era sfuggito che Tessa non l’aveva perso di vista neppure per un attimo. Perchè lo fissava? Che cosa voleva? Cosa si aspettava? Iniziando la passeggiata, Tessa voltò per un attimo la testa fissando Mei negli occhi. E lui finalmente capì quale forza tremenda, spietata e dolcissima li unisse, in quel momento, quasi in un patto di sangue: Meo e Tessa erano due sopravvissuti, due ruderi a caccia di una seconda occasione
IL PROBLEMA Quasi tre settimane erano passate da quella prima uscita, altre ne erano seguito quasi ogni giorno, sempre con il fido Wanadio davanti e l’amico Roccia al fianco. La Contessa diventava ogni giorno più bella, come se l’aria del Monferrato e quel vento salubre che risaliva dal mare scavallando le Alpi Liguri, la rigenerassero. Ma c’era un problema. Stava scadendo il mese di prova chiesto ed ottenuto, e Meo Berazzani non sapeva che cosa rispondere sul futuro di Tessa. Ogni mattina temeva di ritrovarsi davanti il Conte e sapeva che prima o poi sarebbe successo. Mandare Tessa in razza o farla correre? E a che livelli poteva essere competitiva? Meo temeva le domande del Conte, lui per primo non aveva ancora capito se quella saura splendida era ancora una cavalla da corsa. Temeva le domande, ed aspettava l’occasione per mettere Tessa alla prova. con Wanadio, il grigio che alla mattina volava come un fuoriclasse e al pomeriggio non ne voleva sapere. Meo aspettava l’occasione ma con timore, con la paura che non andasse bene, con il terrore di dover dire nuovamente addio a Tessa, proprio ora che l’aveva ritrovata, proprio adesso che l’aveva ripescato dal fondo dov’era precipitato. Nelle uscite, tra una chiacchiera e l’altra con Francesco, Meo ascoltava in realtà ogni muscolo di Tessa, ognuna delle sue abituali bizze. Sentiva qualcosa crescere ma – questa era la verità malgrado la negasse anche a se stesso – aveva paura di accendere il motore di Tessa, paura di scoprire, di sapere. E qui per l’ennesima volta entrò in gioco il destino, decisivo come sempre in questa incredibile avventura di uomini e cavalli.
I CINGHIALI Quella mattina Wanadio stata trotterellando come al solito sulla strada bianca che conduce da Quargnento a Lu, una delle strade più belle della #Monsterrato, quando un cinghiale uscì all’improvviso di corsa dalla boscaglia seguito da quattro cucciolotti: sorpreso e spaventato, Wanadio ebbe uno scarto violento e partì al galoppo con una potenza tale da disarcionare quasi il fantino. Tessa, che lo seguiva, tentennò per un attimo e poi, vedendo luce davanti a sè, partì anch’essa al galoppo forsennato. Meo capì al volo che il momento della verità era arrivato e urlò a Piero di fare una volata a tutta fino a Lu. Tessa era staccata di una decina di metri, sembrava poter rimontare ma il distacco non calava anche se Meo accompagnava il galoppo con tutta la forza che aveva in corpo. Wanadio era sempre una decina di metri davanti, imprendibile. Meo era allo stremo delle forze agli ultimi 500 metri, proprio dove la strada bianca iniziava a salire, leggermente ma senza sosta. Fu in quel momento che Tessa cambiò passo. “Chiamami Branca”, chiese Meo al rientro in allevamento – il sorriso aperto da un orecchio e fino all’altro – rivolgendosi al caporazza . “Buongiorno Conte sono Berazzani. E’ appena successa una cosa straordinaria, fra due settimane voglio correre il Duca d’Aosta con Tessa. Come? Non mi interessa chi corre, mi dia retta, iscriva la cavalla. E si va per vincere”
IN 12 MILA Quindici giorni dopo 12 mila persone riempivano l’ippodromo di San Siro come non accadeva da decenni. Erano lì per la Contessa che tornava in pista con Meo in sella, una storia incredibile, drammatica e delicata che aveva attirato l’attenzione di quotidiani e rotocalchi. L’avversario numero uno era Frisoli, della razza Venturi, gran genealogia ed ottima forma, alla prova verità in vista di una trasferta in America. Tessa la tondino era bellissima, si muoveva sinuosa, elegante e potente, come se avesse voluto chiarire a tutti chi sarebbe stata la vera protagonista anche in gara. Al tondino il Conte Branca era agitatissimo, paonazzo in volto. Meo, elegante nella sua casacca azzurra crociata bianca, mostrava un’insolita calma ed ascoltava con un sorrisino appena accennato dalle labbra sfuggenti le ultime raccomandazioni del trainer Notaro, entusiasta per le condizioni atletiche della cavalla ma dubbioso sulla sua voglia di lottare. Tessa girava al tondino condotta dal lad e sembrava voler studiare i suoi avversari: che dubitasse anche lei delle sue forze?
L’ULTIMA STILLA Il Conte Branca salì in tribuna proprietari, Notaro, in doppiopetto grigio e Borsalino in testa, andò come d’abitudine sul prato in quel punto dove una leggera gobbetta permetteva con un buon binocolo l’ottima visione dell’intero percorso. Tutto fu pronto. Buona la sgabbiata, con Meo che portò Contessa allo steccato tenendola in mezzo al gruppo. Frisoli le era a fianco e così fù per tutta la curva. All’inizio della dirittura il gruppo leggermente si aprì e Tessa prese la scia di Frisoli balzato prepotentemente al comando. “Gli ultimi 100 metri, solo gli ultimi 100 metri”, ripeteva Meo a se stesso e alla cavalla. Per 100 metri poteva esaltarla, poi non ne avrebbe avuto più la forza. Agli ultimi 100 metri, a un tocco di Meo sul fianco sinistro, Tessa uscì dalla scia di Frisoli. Meo l’accompagnò allungandosi e ritirandosi come una molla tirando fuori anche l’ultima stilla di energia. Quegli ultimi 100 metri furono esaltanti. “E adesso in America la portiamo noi”, sussurrò Meo al Conte Branca mentre insieme tornavano esultanti al tondino. Il Conte piangeva senza ritegno, distrutto dalla gioia, sotto gli occhi di 12 mila persone che urlavano un po’ “Meo” e un po’ “Tessa”, all’apparenza molto divertita. Lei non vedeva l’ora di tornare al box dove anche Roccia, osservando l’esultanza insolita di artieri e caporazza, scodinzolava più energicamente del normale: sentiva che qualcosa di eccezionale doveva essere successo.
LA SMANIA DEL CONTE Quella sera, nel cuore della vecchia Milano austro-ungarica, c’era un insolito via vai di di Ferrari, Lamborghini, Jaguar, Maserati, Porsche, Mercedes di quelle esclusive. La hall del grande albergo, che di più stellato c’è solo una galassia, era gremita. Abiti elegantissimi, acconciature ricercate, gioielli ostentati. Anche se agli occhi più esperti non potevano certo sfuggire alcuni fondi di bottiglia. Le alterne fortune della vita. I rotocalchi anni ’60 avrebbero definito quel carrozzone di casta e vanità un gruppo di “bella gente”. La presentazione di un nuovo programma televisivo, con importanti risvolti benefici in un’opera per i bambini dell’Africa, aveva infatti richiamato nella hall di quell’albergo il meglio della borghesia lombarda. A certi appuntamenti nessuno – se invitato – può dire no. Ma attorno a quel tavolino tondo in fondo al bar, tra mura di marmo grigio screziato bianco e grandi specchi, le due persone che discutevano intensamente non erano affatto interessate alla presentazione dell’evento. Erano incuranti anche delle belle donne della noblesse oblige. Discutevano di cavalli. Il Conte Branca smaniava dalla voglia di riportare Tessa in America al Kentucky Derby “per dare una lezione a quelli là”. Più freddo e calcolatore, il trainer Notaro riteneva invece opportuna una trasferta in Inghilterra, ad Ascot, per le King Elisabeth. In effetti per valore ed importanza i due gran premi si equivalevano, così come erano simili la ricchezza dei premi e il prestigio, nel palma res del cavallo e della scuderia, procurato da quel timbro che ne attestava la conquista. Il Conte Branca, che parlava roteando nell’aria di bicchiere di whisky, voleva assolutamente gli States. “Kentucky….. Kentucky”, vuoi mettere l’America?, si udiva di tanto in tanto nel fragore intermittente della compagnia. Quando, paonazzo in volto, il Conte posò finalmente il bicchiere di whisky sul tavolino tondo di mogano, la decisione era stata presa: Tessa avrebbe corso in Inghilterra.
SERENA Tra una passeggiata verso Lu, sulle strade bianche della #Monsterrato, una galoppata contro il mai rassegnato Wanadio e l’attesa che sopraggiungesse al suo personale galoppo anche Roccia, la vita di Virginia Verasis di Castiglione, registrata per errore all’albo equino come Contessa e detta Tessa, scorreva serena. Al pari di quella di Bartolomeo Berazzani, detto Meo. Ma era solo un’apparenza. Con il passare dei giorni gli occhi di Meo erano diventati sempre più freddi e sfuggenti, il suo sorrisetto sempre più tirato e sottile, il suo profilo sempre più affilato. In testa lo blandiva e lo tormentava la dirittura di Ascot, gli ultimi 100 metri in leggera salita. Era freddo ma emozionato, sicuro ma teso.
IL GUAITO Venne infine per Tessa il giorno della partenza verso Londra via Malpensa. Le cure e la messa delle protezioni, soprattutto quelle alle gambe e alla testa, richiedettero tempi lunghi e grande attenzione. Alla procedura sovraintendevano Notaro e Berazzani, sempre più teso e conscio che la dirittura di Ascot e quegli ultimi 100 metri sarebbero stati un esame decisivo anche per lui e il suo futuro. Attentissimo sembrava pure Roccia, accovacciato in un angolo. Già il giorno precedente il suo istinto gli aveva suggerito che qualcosa di diverso stava per accadere. Tanto che quella notte non aveva dormito al solito fuori dal box di Tessa ma proprio dentro, come testimoniavano le spine di fieno che gli erano rimaste aggrovigliate nel pelo infeltrito. Tessa salì sul van, Roccia provò a seguirla ma la porta che si chiudeva lo tagliò fuori. Roccia osservò il van che si allontanava e lanciò un sommesso guaito “Che c’è vecchio? – gli chiese Meo accarezzandogli il testone – Stiamo via solo qualche giorno, andiamo a prenderci la gloria. Non ti preoccupare, la tua amica non la può battere nessuno”. Roccia guardo Meo, lanciò un altro guaito sommesso e si incamminò pensieroso verso il box di Wanadio, sull’altro lato del corridoio delle scuderie. “L’ultima volta che Tessa andò via così non l’ho rivista per anni – sembrava pensare quel pastore bergamasco dagli occhi così umani – Da lì a pochi giorni che cosa avrebbe riservato il destino alla mia amica Tessa?”. Roccia lanciò un altro piccolo guaito, può un cane pensare come un umano?, poi si accoccolò vicino a Wanadio. Ancora per un attimo fissò là in fondo al vialone il van verde che portava lontano Tessa.
LA MUSATA Quel cappello giallo a larghe tese con incastonati fiori blu e rosa, indossato da una signora di mezza età in tailleur color pesca proprio non le piaceva. Passandole accanto al tondino, Tessa diede una musata a quel cappellaccio indossato con tanto orgoglio inclinandolo comicamente sulle fronte della donna. Donna di cavalli, come era evidente dal sorriso con il quale si riassestò il tutto. Ma al secondo passaggio, la musata di Tessa fu così forte da far volare via il cappello e imbarcare paurosamente anche la parrucca della signora. Che dalle movenze divertite con le quali si rimise in ordine, proprio grandissima donna di cavalli doveva essere. Usò solo la precauzione di spostarsi a 3, 4 metri dallo steccato del tondino di Ascot, là dove Tessa al terzo passaggio in circolo non sarebbe potuta arrivare con il suo muso. Queen Elizabeth Stakes, il gran giorno di Ascot era quindi giunto salutato da una rarissima giornata di sole, disturbata solo dal vento. E intristita per la caduta di 3 puledri poche decine di metri dopo il tiratissimo arrivo della prima corsa del convegno. Due di loro avevano rimediato fratture di tale gravità da dover essere abbattuti con il classico rituale della coperta a coprire il tutto e del colpo fatale di pistola. Così funziona con i cavalli fratturati. Con la mezzora di ritardo richiesta dai lavori di risistemazione della pista nel punto della caduta, ora tutto era pronto per il grande appuntamento. Una vittoria avrebbe significato per Tessa non solo prestigio mondiale ma anche un viaggio in America in cerca di quella famosa rivincita alla quale tanto anelava il Conte Branca. La stessa rivincita che cercava Bartolomeo Berazzani, il fantino “ritornato dall’inferno” come avevano titolato per l’ennesima volta i giornali inglesi. Dopo le ultime raccomandazioni del Conte e del trainer, che per la verità neppure sembrò ascoltare, Meo si avvicinò a Tessa, la fissò per qualche secondo negli occhi, l’accarezzò sul muso come d’abitudine, e in un attimo fu in sella.
SGABBIATA Tessa era bellissima e potente, tirata a lucido come non mai, devastante nella potenza che Meo sentì subito sotto di se portandosi al piccolo galoppo verso la partenza. Degnò di sguardi solo distratti gli altri cavalli a ridosso delle gabbie, non aveva dubbi, solo la paura che Tessa attaccasse d’impeto prima dei 100 metri, i suoi 100 metri di autonomia per accompagnare al top il movimento del galoppo. Poi fu solo cronaca: la sgabbiata problematica come al solito, una lenta ma inesorabile rimonta alla steccato, lo “luce” vista poco prima dei 100 metri finali, e la vittoria travolgente con Meo che non dovette neppure spingere più di tanto, tale era la superiorità di Tessa, al punto che tagliò il prestigioso traguardo in piedi sulle staffe e con il braccio destro sguainato al cielo. Ma non era finita.
QUEGLI OCCHI DOLCISSIMI Quando si riadagiò sulla sella accarezzando l’orecchio destro di Tessa, come tanto piaceva a lei, sentì un rumore strano dall’anteriore e la cavalla fece un movimento anomalo; solo per un caso Meo evitò la caduta. La corsa era vinta ma Tessa rallentò troppo all’improvviso con nitriti fievoli e strani. Erano gemiti di dolore. Tessa era probabilmente inciampata in una fossetta delle pista lasciata dalla caduta nella prima corsa, muoveva l’anteriore sinistro malamente, in una maniera così sgraziata ed innaturale da evidenziare chiaramente la grave frattura. Tessa rallentò ancora fino a fermarsi, Meo saltò giù dalla sella un attimo prima che lei si lasciasse cadere a terra. Poi fu il solito drammatico copione: i veterinari che controllano l’entità della frattur.a, l’arrivo di corsa del tecnico, la discussione tra le parti. Alla quale Meo non partecipò. Con in mano la sella che aveva sfilato da Tessa, si diresse verso le tribune cercando con gli occhi il conte Branca, che era rimasto seduto nella sua postazione. Dalla gioia al dramma, un passaggio che l’aveva impietrito. Meo a quel punto si girò in tempo per vedere due artieri alzare la coperta di protezione per nascondere alla gente lo spettacolo tremendo di come si abbatte un cavallo. “No!” gridò Meo gettando a terra la sella. In un attimo fu da Tessa, sempre a terra; tolse di rabbia la coperta dalla mani degli artieri per gettarla via, oltre lo steccato. Guardò con aria di drammatica sfida il veterinario che aveva già caricato l’arma e si buttò al collo della cavalla, accarezzandola, sussurrando più volte il suo nome. Meo era un uomo disperato, finito, distrutto nell’animo e stravolto persino nei lineamenti. Tessa lo guardava, nel dolore pareva sorridere: i suoi occhi erano dolcissimi.
di Claudio Luigi Bagni
(Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale)
FINE
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